Le basi d’ascensione sono rappresentate dai paesi della zona pedemontana meridionale, in ordine, da ovest: Morano Calabro (m. 694), Castrovillari (m. 350), Frascineto-Eianina (m. 486), Civita (m. 450), tutti facilmente raggiungibili servendosi dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Citando queste località si è inteso elencare le basi di ascensione più logiche: quelle, in sostanza, che userebbe l’escursionista che vive lontano dal Pollino. Tuttavia altri paesi permettono buoni avvicinamenti alla montagna: Rotonda (m. 580), a nord-ovest del Piano di Raggio; Terranova di Pollino (m. 900), a nord-est di Serra Crispo; 5. Lorenzo Bellizzi (m. 778), a est della Fagosa ed alle spalle della notevole parete (800 metri) della Timpa di 5. Lorenzo.
Ben farebbe l’escursionista a procurarsi le ottime cartine in scala 1:25.000 dell’Istituto Geografico Militare di Firenze, ad allenarsi ad interpretarle a colpo d’occhio, a studiare su di esse itinerari particolari anche in zone non servite da sentiero, nonché a procurarsi una bussola. Posso garantire che la progettazione di un itinerario e la sua verifica durante il percorrimento aggiungono al piacere dell’escursione la soddisfazione di aver creato qualcosa.
Le cartine, nell’edizione sopra citata, essenziali per chiunque voglia approfondire con serietà la conoscenza della montagna, sono quattro e coprono abbondantemente tutta la zona interessata. La loro denominazione è la seguente: Foglio 221/I/NO, Foglio 221/I/SO, Foglio 22 11W/SE, Foglio 22 11W/NE.L’opera dell’uomo non ha mutato da secoli le possibilità di accesso e di sosta nel massiccio del Pollino. Anzi, per il progressivo allontanarsi dei pastori e dei «legnaioli» dalla montagna, lo stato dei sentieri è andato via via peggiorando.
La disponibilità di escursioni invernali a montagna innevata è oggi assai scarsa, per l’assenza di mezzi di risalita e data l’impossibilità di portarsi con automezzo a quote ragionevoli per compensare la perdita di tempo dovuta alla successiva marcia sulla neve. Si suggeriscono tuttavia due percorsi: la salita al Piano di Raggio per sentiero da Campo Tenese e l’ascensione alla Manfriana per la Petrosa. Le salite al M. PoIlino o al Dolcedorme comporterebbero d’inverno notevole dispendio di energie e di tempo, al punto da non potersi compiere nella stessa giornata.
Per quanto riguarda gli sports invernali, le uniche possibilità oggi offerte sono quelle dello sci di fondo, sfruttando i percorsi che collegano i piani di Ruggio, di Vacquarro, di Pollino e di Gaudolino.
Oltre ai due rifugi, ubicati tra l’altro in posizione periferica e troppo accostati, non esiste nel Pollino un solo riparo.
E sempre buona norma pertanto, quantunque le condizioni meteorologiche estive siano sul Pollino abbastanza stabili, premunirsi contro il maltempo. E utile inoltre portare con sé dell’acqua per evitare dirottamenti dagli itinerari non interessati da sorgenti. Si sconsiglia di compiere escursioni con calzature leggere anche quando si prevede un percorso limitato ai sentieri, perché questi sono generalmente sassosi. L’assenza di rifugi deve essere compensata da un idoneo equipaggiamento e dall’abitudine di affrontare la montagna con metodo, utilizzando saggiamente le energie e conservandone sia per il rientro che per eventuali emergenze. E’ provato del resto che camminando adagio e fermandosi il meno possibile si ottiene il massimo risparmio di tempo col minimo dispendio di energie. Il sistema migliore è quello di alternare la marcia a brevi — anche se frequenti — soste in piedi che, oltre a consentire di ammirare il paesaggio, permettono di osservare l’itinerario in senso inverso: può aiutare a riconoscere più facilmente la via del ritorno. Un ulteriore risparmio di energie si può ottenerlo evitando di prendere quelle scorciatoie spezzagambe, molto frequenti ai margini dei sentieri tortuosi, solitamente preferite dai meno furbi. Non bisogna dimenticare che il sentiero originario rimane sempre la via più logica di salita e rappresenta il miglior compromesso fra pendenza e lunghezza.
E utile riporre la proprie cose in un pratico zaino, evitando la diffusa usanza di calcare la montagna recando scomode borse a mano — spesso colme di sovrabbondanti cibarie — che rendono faticosa la marcia e sciupano il piacere della gita. Al posto della borsa meglio è impugnare il classico bastone, sia pure di fortuna: riduce incredibilmente la fatica ed è utile per verificare fra l’erba l’eventuale presenza di un rettile.
La marcia nel bosco fuori sentiero è sempre sconsigliabile perché solo raramente il terreno delle faggete si presenta sgombro. In caso di smarrimento del sentiero conviene pertanto evitare di proseguire nell’intrico degli arbusti e dei rami bassi; si consiglia piuttosto di retrocedere e di riprendere pazientemente la giusta traccia del sentiero.
D’estate è facile incontrare pastori nelle zone che gravitano attorno ai piani di Vacquarro, di Poiino e di Gaudolino, nonché lungo tutta la Fagosa. La loro solitudine li induce sempre ad intrattenersi cordialmente a discorrere, e non è improbabile che una volta giunti in vetta se ne veda comparire uno misteriosamente all’improvviso.
Il pericolo delle vipere non è da sottovalutare: anche a questo proposito riveste importanza l’uso di calzature e di pantaloni adatti. La presenza dei lupi — spesso esagerata nei racconti dei pastori — è un fatto innegabile, ma il loro pericolo è da escludere, specie d’estate.
Per quanto concerne le colazioni al sacco, ricordare che né i lupi né gli altri animali del bosco digeriscono sacchetti di plastica, cartacce, lattine vuote e cocci di bottiglia. E doveroso riporre questi avanzi nel proprio sacco e riportarseli a casa. Abbandonarli significa sporcare l’ambiente e rendere inospitale un posto che servirà a sé stessi per una futura colazione. Illustrare gli effetti dell’incendio di un bosco è superfluo. Non si abbandonino, quindi, fuochi accesi o non perfettamente spenti e si presti molta attenzione alle cicche ed ai fiammiferi. Chi non è certo di saper badare a queste cose è meglio che dalla montagna rimanga lontano. La collettività gliene sarà grata.
A chiusura ritengo importante esortare il lettore a percorrere la montagna con rispetto, amore e serietà. Rispetto per tutto ciò che la natura ha saputo costruirvi nel corso della sua opera millenaria, ed anche per quel poco che vi ha costruito l’uomo. Amore, almeno per contraccambiare le gioie, le forti impressioni, i vivi ricordi che suscita, il silenzio che essa sa donare. Serietà, nel valutare le proprie possibilità fisiche, il proprio equipaggiamento nonché le sue difficoltà, specie ove essa è più severa.
Molto se ne parla, da anni, dal lato socio-economico, naturalistico e dell’industria turistica, spesso con toni di accesa polemica. In essa io non voglio entrare — né questa sarebbe la sede adatta — però mi si permetta di esortare le parti a calzare un buon paio di scarponi ed a partire finalmente alla scoperta di questa montagna, così vicina ai paesi che sorgono alle sue falde ma tanto lontana dalla conoscenza dei residenti. Chissà che un’esperienza di questo genere non valga a calmare le animosità ed a favorire un sano, realistico punto d’incontro.
DA CIVITA AL PIANO DI POLLINO (m. 1800) PER LA FAGOSA
I tempi di percorso di questo itinerario dipendono molto dalla praticabilità della strada Civita-Fagosa. E possibile portarsi in auto fin verso la Fontana del Principe: quanto basta, cioè, per entrare nel sentiero per le Sorgenti del Vascello. Tuttavia, fino a che la rotabile non troverà la sua sistemazione definitiva, in caso di piogge recenti è consigliabile lasciare l’auto prima di entrare nel bosco (la Fagosa): alcuni tratti fangosi potrebbero procurare difficoltà.
In considerazione di ciò i tempi del percorso a piedi saranno riferiti all’inizio del bosco. D’altra parte la prima ora del percorso è talmente riposante da non far rimpiangere l’abbandono dell’automezzo.
La strada, che ha inizio dal cimitero di Civita, conduce all’ingresso nel bosco (quota 1390) in circa 11 chilometri. Attraversa l’amena radura del Ratto Grande (m. 1391 – Fontana, 70 metri verso destra nel bosco) e prosegue con lievi saliscendi. A km. 3 dall’ingresso nel bosco (m. 1340) la strada va abbandonata per un sentiero che si stacca obliquamente da sinistra.
Proseguendo invece per 450 metri nella primitiva direzione si giunge alla notevole Fontana del Principe, m. 1317, presso i ruderi del vecchio rifugio della Forestale. Data la sua prossimità vale la pena di eseguire il dirottamento.
Il sentiero prosegue in moderata salita o in falso piano nel bosco e dopo aver toccato le Sorgenti del Vascello (m. 1493; anche qui abbondanza di acque) inizia a salire in direzione della valle (La Scaletta) compresa fra una propaggine della Serra delle Ciavole (a destra) ed il fianco nord-orientale della Serra Dolce- dorme. Raggiunto il Piano di Fossa (m. 1623), bosco- sa conca con tratti di radura sassosa, si risale la valle prima detta, alla cui testata si apre il Piano di Acqua- fredda che ospita la piccola fonte omonima, quasi sempre attiva (m. 1825).
Oltrepassato quest’ultimo modesto pianoro si perviene in pochi minuti al Passo delle Ciavole, quota massima dell’itinerario (m. 1860), sotto cui si schiude l’ampio Piano di Pollino (m. 1800).
Sulla via del ritorno, al Piano di Fossa prestare attenzione al sentiero, evitando di prendere una diramazione verso sinistra.
La Fagosa rappresenta quel notevole bosco di faggi che copre il versante nord-orientale della catena, dal Colle della Scala alla Serra delle Ciavole. La superficie coperta a bosco è in forte risalita verso sud-ovest, ove raggiunge lo spartiacque, ed ammonta in proiezione a circa 16 chilometri quadrati. Verso nord-est cede gradatamente il posto a zone meno densamente alberate ed alle radure di quella vasta area monoclinale che si abbassa fino al letto del Raganello.
DAL PIANO DI POLLINO (m. 1800) ALLA SERRA DELLE CIAVOLE (m. 2127).
Avvicinarsi allo sperone occidentale della Serra delle Ciavole. Risalire il dolce pendio che si abbassa verso il piano sfruttando per un po’ una traccia che sale
-verso la Grande Porta del Pollino (vedi itinerario seguente) e, contornando lo sperone con ampio giro verso destra, salire verso la vetta senza via obbligatoria. Magnifico panorama sulla Fagosa e sull’alta valle del Raganello.
Il Raganello, solitamente di modesta portata, ma impetuoso in caso di piogge, è veramente notevole per l’ambiente in cui scorre. Trae origine dal vasto bacino imbrifero che giace alla base nord orientale della Serra delle Ciavole, lambisce i piedi dell’alta parete (800 m.) della Timpa di 5. Lorenzo e prosegue scorrendo prevalentemente in una serie di forre fino a Civita. Qui il suo letto, che da alcuni chilometri era strettamente incassato in un profondo orrido, si allarga repentinamente nell’ampia valle che preannunzia la Piana di Sibari. Sfocia nel Mare lonio dopo un corso di circa 32 chilometri.
DAL PIANO DI POLLINO (m. 1800) ALLA SERRA CRISPO (m. 2053).
Portarsi in vicinanza dello sperone occidentale della Serra delle Ciavole e risalire il pendio che si abbassa verso il piano. Sfruttando una traccia di sentiero, o senza via obbligata, proseguire verso nord in lieve salita o in piano. Raggiunta la Grande Porta del Pollino (m. 1945, ampio valico caratteristicamente squadrato, fra Serra Crispo e Serra delle Ciavole, di accesso al versante di Terranova del Pollino), proseguire nella primitiva direzione senza alcuna difficoltà lungo il crinale di Serra Crispo fino alla vetta.
DA S. LORENZO BELLIZZI A PIANO DI POLLINO
Arrivati a S. Lorenzo Bellizzi conla SS. 92 si prende, deviando a sinistra subito all’inizio del paese, la
strada interpoderale della Granpollina che permette di arrivare agevolmente al rilievo della Falconara. Da qui si prosegue per un tratturo che porta a Piano di Fossa da dove, in una bellissima foresta di faggi, inizia un sentiero pietroso che attraversa la Scalettae che porta al Piano di Acquafredda e quindi al Piano di Pollino.
Il sentiero offre a sinistra il paesaggio del Dolcedorme, a destra è molto vicino alla Serra delle Ciavole e di fronte si vede il Monte Pollino.
Dal Piano di Pollino si può scegliere la direzione preferita ma si consiglia di andare verso destra per arrivare alla Grande Porta del Pollino e poi attraverso un sentiero scendere al Casotto Toscano che può considerarsi uno dei pochi rifugi del versante oriertale del Pollino.
La strada del ritorno porta alla Falconara e quindi a S. Lorenzo Bellizzi.
DA ALESSANDRIA DEL CARRETTO A PIANO DI POLLINO
Arrivati ad Alessandria del Carretto si prende una buona pista e si sale agevolmente fino in cima al Monte Sparviere (1714 mt.). La strada sterrata è ben percorribile in auto ed in cima si collega con un’altra pista che attraverso il bosco di Lagoforano porta alla Falconara.
Da qui si può scegliere se arrivare in auto fino al Casotto Toscano e poi iniziare la breve ascesa a piedi fino al Piano di Pollino attraverso la Grande Porta oppure dirigersi verso Piano di Fossa, La Scaletta, Piano di Acquafredda e Piano di Pollino.
L’ACROCORO DEL POLLINO ED IL SUO SANTUARIO
”LA MADONNA DEL POLLINO “.
Può ben a ragione essere simbolo della civiltà della regione il santuario della Madonna del Pollino, che sorge su una delle propaggini più aspre del versante settentrionale di quello straordinario massiccio calcareo, che è il cuore più impervio e meno noto di tutta la regione calabro-lucana.
Lassù, anch’egli isolato dal tempo, il santuario della Madonna del Pollino è più antico del cristianesimo stesso che lo perpetua, è anteriore al tempo dei Romani, più antico dei Greci che vennero a fondare nelle pianure le prime città; le sue origini si perdono nella notte dei tempi, agli albori mitici della nascita dei popoli italici. E questo culto pagano, antichissimo, remoto, preistorico, si è continuato a perpetuare al tempo dei Greci, dei Romani, dei Longobardi, dei Bizantini, dei Normanni e degli Svevi, degli Angioini e degli Aragonesi, dei Borboni; continua ancor oggi ai nostri giorni. Esso non è mai venuto meno, nel volgere dei millenni, in questo stesso paesaggio fatto di rocce, di grotte, di corsi d’acqua e di alberi: la Madonna del Pollino è qui ancora la grande Dea Madre della civiltà eneolitica pan-mediterranea, la dea dell’amore e della morte legata al culto della fecondità e della fertilità che la fede nelle proprietà magiche e taumaturgiche dell’immagine permette di sopravvivere in un ambiente che non solo è impervio e lontano, ma profondamente arretrato economicamente e civilmente: la miseria e l’isolamento hanno fatto di questa regione, infatti, una delle zone più depresse d’Italia, una delle più arcaiche nella conservazione delle proprie tradizioni culturali e perfino dal punto di vista linguistico.
Ogni anno, il venerdì ed il sabato che precedono la prima domenica di luglio, concorrono al santuario, convergenti dalle più prossime e lontane contrade della Lucania meridionale e della Calabria settentrionale, vere masse di popolo formate da singoli, da gruppi famigliari, da «compagnie» di paese o di comunità, spesso a piedi ancor oggi per povertà o per voto con più giorni di viaggio: per tutti comunque sono da tre a dodici ore a secondo delle distanze solo dal terminale delle carrabii dai paesi più prossimi, che sono Terranova, S. Lorenzo Bellizzi, Civita e Frascineto di Castrovillari, Morano, Viggianello, Salice e Frido.
Aiuta il cammino, chi può, il mulo e l’asino; ci si porta dietro i bambini ed i vecchi, caricati sulle bestie con le vettovaglie, le coperte e le tende necessarie al pernottamento: tutti tesi a raggiungere il luogo ove chiederanno grazie e troveranno la speranza di essere stati ascoltati. Da anni vi è anche l’intenzione di portare fin lassù, addentro nelle montagne, una strada che possa permettere di raggiungere il santuario coi moderni mezzi di trasporto, l’automobile o la corriera (sarà forse allora la fine del santuario stesso), ma il terreno impervio rende ardua l’impresa, più volte iniziata ed interrotta.
Essa viene anche condotta dal versante meno difficile, che è quello di NO, che però è anche quello più fuori mano, ben lontano da ogni normale rotta di traffico, così che se anche un giorno la strada sarà compiuta, il luogo non rimarrà molto meno isolato e sarà comunque ancora più facile raggiungerlo per molti dei versanti ancora a piedi, per i vecchi sentieri.
Là dove i fedeli giungono, alla chiesetta sul monte, in quei due giorni è uno straripare di folla, di muli e di asini, di capanni improvvisati, di tende e di plastiche strettamente affastellate nell’esiguità dello spazio per prepararsi per la notte, sono accesi i fuochi per cucinare; pochi tavolini o semplici panni stesi a terra espongono alla vendita poveri votivi o ricordi del pellegrinaggio. Quelli che arrivano non vestono costumi, ma i comuni vestiti contadini d’ogni giorno: è gente misera, discriminata dall’indigenza, dall’impossibilità di scelta, che trova la propria unica speranza in questa atmosfera magico-religiosa, in un ultimo ambiente posto al di fuori del mondo. Non è questa una festa gioiosa, ma vi si svolge una cerimonia drammatica ed angosciosa.
Appena giunti, a gruppi famigliari o di « compagnia, compiono secondo il rito magico-propiziatorio, che è primordiale, tre giri attorno alla chiesa, intonando canti in onore della Madonna. Entrano poi in chiesa e si dirigono verso la statua di culto, che è collocata sopra una base al di fuori del presbiterio:
molti avanzano in ginocchio, trattenendo i singhiozzi e le lacrime, percuotendosi il petto, instaurando con il simulacro un colloquio angoscioso, ad alta voce o solo mormorato, o addirittura muto, solo gestito. Non pochi si avvicinano alla divinità strisciando la lingua per terra, seguendo la traccia che loro indica una persona che conduce davanti il lembo di un fazzoletto.
Questi fedeli non chiedono grazia per la loro anima, IKE chiedono di poter essere accolti un giorno in Paradiso, ma domandano di essere meno poveri, di guarire da una malattia o da una jettatura, di vivere un poco meglio a questo mondo. In cambio portano quello che sono riusciti a risparmiare con tanti sacrifici una capra od una pecora, una gallina, una bottiglia d’olio, una caciotta, un sacchetto di grano, uno scialle; attaccano al manto celeste della Madonna biglietti da 1.000, da 10.000 lire.
Certi gruppi di persone, per farsi meglio ascoltare dalla divinità, accompagnano anche il rituale con la fisarmonica, l’organetto, la zampogna od il tamburello, anche con il mangiadischi. Compiuti i tre giri attorno alla chiesa, con gli stessi strumenti musicali entrano dentro il tempio, suonando davanti al simulacro ed eseguendo brevi danze. Proprio del rituale taumaturgico, teso ad evocare il potere matriarcale, di fecondità della divinità, è il balletto chiamato «la pecorara», una specie di tarantella, ma assai contenuta ed ingenua: al suono della zampogna o del tamburello l’uomo volteggia schioccando le dita, in atteggiamenti fauneschi di invito alla donna, che sfugge tenendo gli occhi bassi.
Queste cerimonie avvengono per tutto il venerdì e la mattina del sabato; la notte si incrementano i fuochi e si arrostiscono le pecore e le capre appena sgozzate, che con altri cibi vengono mangiate con forzata ingordigia, rimpinzandosi come si dice «per devozione », convinti che il simile genera il simile e la rituale abbondanza di oggi serva a ricrearla per l’avvenire. Ancora si balla, ora quasi in esclusiva gli uomini in coppia, dei quali uno in ruolo femminile. Poi, poco a poco, scende il silenzio, ci si raduna man mano nei capanni o sotto i teli, al riparo degli alberi o delle rocce, perfino in chiesa per dormire, gli uomini facendo cerchio attorno alle donne del gruppo.
Il culmine della festa è alle undici del sabato, quando la statua della Madonna è portata fuori dalla chiesa e posta in vendita, perché sia aggiudicata al paese che offrirà in denaro la somma più alta e che avrà l’onore, mediante i suoi rappresentanti, di portare in processione il simulacro attraverso un boschetto. Il paese che con collette e sacrifici si è aggiudicato la statua ha la convinzione di avere le particolari grazie della divinità per l’anno a venire, così come con l’offerta del denaro ha creduto di coercire (con lo stesso scopo magico era stata la precedente ingozzata) la futura abbondanza. Anche la processione nel boschetto risponde ad un preciso rituale d’origine certo primordiale, ed è forse da collegare al luogo del costituirsi iniziale del culto, al sito dove proprio si era manifestata la dea agli uomini nella notte dei tempi e dove la si venerava all’aperto, prima che venisse costruito il tempio in muratura.
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