POLLINO : “Il Parco dell’Alto Jonio”

 

 «A mille chilometri di distanza, a Genova o a Venezia, a Milano o a Torino, forse una persona su mille sa che esiste il Pollino; tuttavia stiamo parlando di uno dei più importanti massicci montani della catena appenninica»

A cavallo tra Calabria e Basilicata, il Pollino si colloca nel panorama delle montagne italiane come un mondo a sè ancora quasi sconosciuto, di cui solo ora si comincia a sentir parlare con una certa frequenza in relazione alla costituzione di un parco nazionale che dovrebbe comprendere il territorio.
Dal valico di Campo Tenese fino allo svincolo di Frascineto, l’autostrada Salerno-Reggio Calabria si snoda su parte del versante meridionale del Massiccio del Monte Pollino. Già da questo lato la montagna presenta aspetti estetici e naturalistici notevoli, ma percorrendo questo tratto di autostrada chi non conosce il massiccio difficilmente può immaginare la
varietà, l’originalità e la straordinaria bellezza dei paesaggi che si nascondono al di là dei trenta chilometri di imponente dorsale.

Con cinque cime di oltre duemila metri rappresenta la massima elevazione dell’Appennino meridionale, ma non è certo la quota che giustifica da sola l’istituzione di un parco. La zona infatti presenta tutti i requisiti ideali per una vasta area protetta: scarsa pressione demografica, paesi situati nelle zone periferiche, viabilità non molto sviluppata, grande estensione di ambienti naturali relativamente intatti, eccezionale rilevanza naturalistica sìa floro-faunistica, sia geomorfologica, complementarietà turistica rispetto a famosi centri costieri con elevato movimento turistico estivo (Sapri, Maratea, sul Tirreno, Sibari sullu Ionio), possibilità di rapido avvicinamento dalle grandi aree urbane con un sistema di autostrade e superstrade in via di completamento.

La varietà del paesaggio è forse la caratteristica del Pollino che più colpisce. In un’area relativamente ristretta si può passare rapidamente dalle pietraie semidesertiche della Penosa alle fitte foreste di faggi delle zone settentrionali, dal canyon selvaggio del Raganello alle praterie di altitudine delle zone più elevate, dalla colossale parete rocciosa della Timpa di S. Lorenzo ai dolci declivi orientali coperti da macchie di ginestre, fino all’unico, splendido paesaggio costituito dai monumentali pini loricati abbarbicati ai dirupi delle zone centrali del massiccio.
Alla varietà si accompagnano una vastità di orizzonti e un’apertura di prospettive inconsuete dovute all’crgersi isolato di quasi rutre le cime e le dorsali principali, divise dalle basse alture circostanti da ampie vallata e ancor più ampie pianure. L’aria tersa e i colori brillanti tipici del meridione accentuano la sensazione di sconfinata spaziosità che si gode da quasi tutto il massiccio; nelle limpide giornate invernali non è difficile vedere dalla vetta della Serra Dolce- dorme non solo lo lonio e il Tirreno, ma anche l’azzurro dell’Adriatico oltre la sagoma scura della Puglia.

L’evoluzione geologica. Per comprendere facilmente l’insieme di vicende che hanno portato all’attuale morfologia del paesaggio è utile partire dall’osservazione della Timpa di S. Lorenzo. Testimonianza evidentissima dell’evoluzione geologica del massiccio, la Timpa è un colossale lastrone di roccia calcarea compatta lungo cinque chilometri, largo quasi altrettanto, inclinato su un fianco, nel settore orientale dell’area in esame.
Poco appariscente se visto da lontano, per la sua posizione
abbassata rispetto alle alture circostanti (la vetta raggiunge i 1860 metri), visto da NE sembra emergere dalle argille come lo scafo capovolto di una nave gigantesca in procinto di affondare. Da SE invece svetta con l’eleganza di una slanciata piramide. A NE il lastrone mostra la sua superficie superiore, un gigantesco piano inclinato chiamato localmente «Lisci di S. Lorenzo», sulla parte alta i «lisci» sono incisi da stupende manifestazioni di carsismo di superficie; canali di corrosione, campi solcati simili a veri e propri labirinti con lame rocciose alte anche qualche metro, creano un curioso, fantastico ambiente.
Ma la maestosità e l’imponenza della Timpa si manifestano in pieno solo osservandola da ovest; lo spettacolo è uno dei più grandiosi offerti dall’intero massiccio: una formidabile parete di ottocento metri di altezza, lunga alcuni chilometri, che precipita quasi a picco nel letto del Raganello e che si perde nelle Gole della Scala di Barile percorse e approfondite nei millenni dallo stesso torrente.

Sembra un pacco di giornali. Tutta la Timpa si può facilmente visualizzare come un colossale pacco di giornali; la parete di SW rappresenta una faccia laterale affiorante: i singoli strati rocciosi vi appaiono in successione come i fogli di giornale visti di taglio gli ufli compressi sugli altri.
I Lisci di S. Lorenzo invece non sono altro che la superficie del foglio più alto che si immerge concordante con tutti gli altri fogli sottostanti, cioè con tutto il pacco, verso NE. La roccia della Timpa, come pure quella delle dorsali principali di tutto il massiccio, si è depositata milioni di anni fa dal triassico al giurassico, sul fondo di un mare ampio e profondo mentre contemporaneamente in un bacino più meridionale poco profondo si andavano sedimentando le migliaia di metri di spessore di roccia più o meno simile che costituiscono oggi parte del gruppo montuoso dell’ Orsomarso.
Un’antichissima catena montuosa con andamento WE separava non solo i due bacini di sedimentazione, ma anche ambienti di sedimentazione diversi, cosa che spiega la diversa natura litologica delle rocce dei due complessi montuosi. In seguito i pacchi di sedimenti ormai consolidati in roccia, hanno cominciato a sollevarsi, la catena che li separava si è abbassata, e il pacco meridionale, i cui resti sono l’attuale Orsomarso, spinto da colossali forze trasversali ha cominciato a spostarsi verso nord. Ricoprendo ciò che rimaneva della catena divisoria, si è scontrato col pacco settentrionale.
Dal corrugamento e dalla fratturazione del margine meridionale di questo, dovuti al lentissimo scontro durato milioni di anni, si è avuto l’innalzamento di più blocchi lungo gigantesche linee di frattura; blocchi di parecchi chilometri di lunghezza che, con i loro bordi rialzati hanno dato origine alle cime e alle dorsali che oggi ammiriamo.
La grande dorsale Timpone della Capanna, Serra Dolcedorme, Monte Moschereto è costituita dai bordi rialzati di due blocchi separati tra loro da una faglia con andamento NS passante per il Colle Gaudolino.
Serra di Crispo e Serra delle Ciavole sono emergenze di un altro blocco. L’allineamento Colle di S. Martino, Timpa di S. Lorenzo, Timpa Falconara fa parte di una stessa unità strutturale lunghissima che degrada verso nord scomparendo sotto le argille ed affiorando nuovamente costituendo le due spalle rocciose che racchiudono la profonda gola della Garavina, tra Casa del Conte e Terranova di Pollino.

Un continuo gioco di erosioni. Altri due « spigoli » di blocchi calcarei sono il Monte Sellaro, ultima propaggine orientale del massiccio, protesa sulla Piana di Sibari, e la Pietra di S. Angelo, che appare traforata da numerose grotte. I fenomeni carsici sono diffusi in tutti i settori calcarei e calcareo-dolomitici del Pollino, ma sono conosciuti soprattutto nella zona orientale; basta ricondare in proposito l’Abisso del Bifurto, che scende nelle viscere del Sellaro per seicentoottantatre metri, la massima profondità raggiunta da una voragine meridionale.
Le marne e le argille depositatesi nel Miocene sui calcari quando questi erano ancora pressoché orizzontali, per effetto gravitativo e per la loro stessa plasticità, si sono per così dire «scollate » dalla faccia superiore dei blocchi rocciosi inclinati e sono scivolate verso il basso riempendo quelli che oggi sono i fondivalle.
Su questo quadro primordiale ma già ricco di movimento, l’erosione dei milioni di anni successivi a quegli eventi ha scolpito uno scenario di forre strettissime, profondi canyons, vallate ampie e luminose. Già da al4wa, impostati lungo grandi fratture tettoniche andavano formandosi gli attuali corsi d’acqua. Ciò che veniva eroso in alto era portato a valle da fiumi e torrenti, depositandosi in grandi pianure; successivi periodi erosivi, facilitati dal lento sollevamento di tutta la zona, incidevano le pianure approfondendo i corsi d’acqua prima, scavando piccole vallate poi; a testimonianza delle primitive pianure della zona sud-orientale restano oggi i terrazzi fluviali e i gruppi di basse colline che separano il massiccio dalle Piane di Sibari e di Castrovillari.
E il lungo e continuo gioco di erosione e sedimentazione che, guidato sapientemente nei milioni di anni dall’alternarsi di condizioni climatiche diverse ha creato la struttura portante del paesaggio che oggi ammiriamo.


Le tracce dei ghiacciai.
Ma il tocco finale all’attuale morfologia, perlomeno nel cuore del massiccio, lo hanno dato i piccoli ghiacciai che durante le grandi glaciazioni quaternarie ricoprivano le zone alte del Pollino, della Serra del Prete, della Dolcedorme e della Serra delle Ciavole. Allora sui Pollino il limite delle nevi permanenti era intorno ai 1800 metri, sufficiente alla formazione di piccoli ghiacciai a scudo, là dove oggi ne restano evidenti le tracce: sui Piani di Pollino, ai Piani di Fossa e di Acquafredda, sul versante settentrionale della Serra del Prete.Di quello più grande ci restano evidenti testimonianze di eccezionale valore naturalistico: la magnifica conca, oggi carsificata del Piano di Pollino, che sembra ospitasse un lago fino alla fine del secolo scorso; le basse ondulazioni moreniche sull’orlo del Piano, la Fossa del Lupo, delimitata a valle da un piccolo arco morenico che indica dove più a lungo si è fermata la fronte dell’ormai ridottissimo ghiacciaio durante il suo ritiro.

Il pino loricato. Ma le glaciazioni hanno dato al Pollino qualcosa di più di un semplice modellamento morfologico: hanno portato il Pino Loricato.

Monte Pollino. I pini loricati sono chiamati dai naturalisti «le  sentinelle del Pollino» perché dominano sulle vette più alte e combattono con i venti freddi del nord, i fulmini e le bufere.Osservati da vicino mostrano i segni lasciati dai fulmini o dall’impietosa scure di qualche pastore annoiato. Alcuni di essi, rinsecchiti, sembrano dei resti fossili per l’espressione drammatica dei rami contorti: si protendono verso l’alto come strane croci. Sono i custodi del regno del silenzio. Come è possibile immaginare qui strade, funivie, impianti di risalita e alberghi- mostri di cemento? In questo luogo, dove si può ancora avere un saggio di severa bellezza, di come «era» il mondo prima che l’uomo cominciasse a distruggerlo con l’egoismo del piacere e della tecnica. Si gusta un silenzio profondo che, penetrando in ogni fibra del corpo, ispira quasi la voglia di chinarsi e di baciare questa profumata terra…». (Francesco Giorgio).

Durante i periodi glaciali più intensi il livello dei mari scese di circa duecento metri per effetto dell’immobilizzazione di enormi quantità d’acqua sotto forma di ghiaccio nelle calotte glaciali. L’abbassamento del livello marino determinò l’emersione di gran parte dei fondali e la formazione di una specie di  ponte transadriatico all’altezza del promontorio del Gargano. Attraverso questo passaggio fu possibile alle fiore la migrazione dai Balcani alla penisola viceversa. Il pino loricato, specie balcanica, poté così colonizzare con altre specie vegetali il nostro meridione d’Italia , facilitato  da ambiente e clima che allora erano
ìdali per la sua diffusione.
Col  successivo riscaldamento del clima il livello dei mari si innalzò, le coste adriatiche si allontanarono nuovamente, e i pini loricati cercarono nelle zone più elevate  rifugio dalle calde estati mediterranee. Oggi li troviamo  oltre che nei Balcani, loro terra d’origine, alcune zone montuose di Calabria, Lucania e
Campania, ma è sul Pollino che si trovano nella comunitàpiù numerosa, circa duemila esemplari.
Albero maestoso, dalle forme massicce ma eleganti al tempo  stesso, il pino loricato è l’attrattiva naturalistica  primaria della zona, vero e proprio monumento vegetale.
Abbarbicato alle pendici rocciose delle zone più alte e centrali del massiccio, forma gruppi abbastanza numerosi solo sulle Serre di Crispo e delle Ciavole, sfidando la furia delle bufere invernali persino sulle  creste e sulle cime. Come giganti dalle forme vagamente antropoidi i pini, veri e propri patriarchi vegetali, sembrano vegliare muti e solenni sui boschi sottostanti; sono gli ultimi superstiti di secolari battaglie con fulmini e intemperie, della lotta col faggio per occupare posizioni più favorevoli dello sfruttamento forestale degli ultimi decenni.
La corteccia a grandi e tozze scaglie lucenti ricorda le antiche corazze romane, le loriche; da qui il nome italiano.
Dal colore grigio chiaro deriva invece il nome latino, pinus leucodermis, cioè pino dalla pelle bianca.

La stagione migliore. La sua bellezza, l’aspetto scultoreo, si apprezzano in pieno nella luce irreale delle nebbie, quando i pini paiono emergere dal nulla come fantastiche apparizioni dotate di vitalità propria. Ancor più suggestivi, quasi surreali nella loro essenzialità grafica, i tronchi morti privi di corteccia, simili a nude sculture d’argento.
E in autunno che si può ammirare il pino loricato nel suo massimo splendore. In questa stagione, la migliore per visitare il massiccio, l’aria è fresca e sgombra da foschie, i colori più nitidi e intensi, le forme suggestive dei loricati messe in risalto dal contrasto tra il verde cupo delle loro fronde e il giallo vivo delle praterie a sesleria e festuca, erbe tipiche dei pascoli di altitudine. Tutt’intorno, uno sfondo di orizzonti senza fine.

Le grandi faggete sottostanti risplendono in tutte le tonalità dal giallo oro al bruno scuro, punteggiate in basso dal rosso vivo degli aceri. In questo periodo è più facile distinguere le varie zone altitudinali della vegetazione, zone che costituiscono ambienti diversi non solo a seconda della quota ma anche in funzione dell’esposizione dei versanti e della morfologia e natura del suolo. Le varie zone in autunno sono evidenziate dalle forti differenze di colore delle fasce di vegetazione, differenze meno percepibili nelle altre stagioni. Dai pascoli di altitudine chiazzati qua e là dal verde scuro dei cespugli di ginepro si passa immediatamente alle grandi foreste di faggio, sviluppate al massimo sui versanti settentrionali. Sul versante lucano, nei settori più freschi e umidi, al faggio si trova misto l’abete bianco in una associazione forestale suggestiva ed estremamente interessante dal punto di vista botanico.
Sono questi gli ambienti d’elezione del lupo, ormai ridotto a pochi esemplari di cui però facilmente si trovano le tracce. Lupi, volpi, ghiri, lepri, i magnifici scoiattoli meridionali dalla pelliccia bianca e nera, puzzole, donnole e fame sono i principali abitatori dei boschi più alti. Tra gli uccelli non è difficile vedere il falco, il corvo, il gracchio, mentre si ode facilmente il caratteristico richiamo del cuculo nel silenzio serale delle foreste. Difficili da vedere invece il picchio nero e il maestoso corvo imperiale.

 

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